La sentenza dichiara legittimo il nuovo sistema indennitario introdotto dal collegato lavoro; questa decisione consentirà di far ripartire quelle migliaia di cause di lavoro che si erano arenate su questo tema, con decisioni parziali o rinvii ripetuti.
La norma che era finita sul banco degli accusati è l’articolo 32 (nei commi 5 e 6) del collegato; la disposizione stabilisce un tetto all’importo dell’indennizzo che deve essere pagato dal datore di lavoro a un lavoratore, nel caso in cui questi ottenga la conversione a tempo indeterminato di un precedente contratto a termine. Prima dell’entrata in vigore della riforma, al lavoratore era riconosciuto un risarcimento pari alle retribuzioni cui avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del contratto a termine sino all’effettiva ripresa del lavoro; a questa regola erano applicati dei correttivi, in quanto il giudice doveva tenere conto della data in cui il lavoratore aveva offerto la prestazione e dei redditi eventualmente conseguiti con altre occupazioni.
Il risarcimento, quindi, aumentava in misura direttamente proporzionale alla durata del processo e copriva tutti i periodi in cui il dipendente era rimasto senza occupazione. Secondo il collegato lavoro al lavoratore che si vede convertire il contratto spetta (oltre alla riammissione in servizio) esclusivamente un’indennità di importo variabile tra le 2,5 e le 12 mensilità. Questa indennità non tiene più conto della durata del processo, ma deve essere calcolata secondo parametri diversi – le dimensioni azienda, l’anzianità lavorativa, il comportamento delle parti – e, in ogni caso, non può mai eccedere le 12 mensilità.
“La Corte di cassazione e, prima ancora, il Tribunale di Trani avevano posto la questione di costituzionalità, sostenendo che la norma limitava il diritto del cittadino al lavoro e alla tutela giurisdizionale. Un altro motivo di impugnativa riguardava la presunta violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infine, era stato paventato il possibile contrasto con la normativa comunitaria, nella parte in cui impone di garantire ai lavoratori a tempo determinato che subiscono un abuso del contratto un risarcimento proporzionato al danno”.
La Corte costituzionale, con la sentenza di ieri, ha respinto tutti gli argomenti. In primo luogo, la Corte chiarisce che l’indennità sostitutiva va chiaramente a integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, come emerge anche dai lavori preparatori. Inoltre, un sistema analogo vige anche per l’ipotesi di licenziamento ingiustificatamente intimato in regime di tutela obbligatoria, anche tale sistema è stato ritenuto legittimo. L’indennità riconosciuta dal collegato lavoro copre soltanto il periodo che passa tra la scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità del contratto, mentre per gli eventi successivi il lavoratore ha diritto al risarcimento nei termini ordinari, e quindi non è esposto al rischio di subire un ristoro insufficiente per colpa dei ritardi del datore di lavoro.
Inoltre, la Corte osserva che il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum e quindi, da questo punto di vista, è addirittura più favorevole al lavoratore. Viene considerata legittima anche la norma che riduce alla metà il limite superiore dell’indennità sostituiva in caso di accordi di assorbimento del personale precario disciplinati dall’autonomia collettiva.Infine, la Corte esclude un contrasto della disciplina interna con l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato o con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo.